Testimonianza di chi è stato costretto a fuggire all’estero per garantirsi una vita dignitosa
Di Paola Giaccio
“Lavoratori – si legge in un volantino diffuso a Napoli il 20 aprile 1890 – ricordatevi il 1 maggio di far festa. In quel giorno gli operai di tutto il mondo, coscienti dei loro diritti, lasceranno il lavoro per provare ai padroni che, malgrado la distanza e la differenza di nazionalità, di razza e di linguaggio, i proletari sono tutti concordi nel voler migliorare la propria sorte e conquistare di fronte agli oziosi il posto che è dovuto a chi lavora. Viva la rivoluzione sociale! Viva l’Internazionale!”. Da quella antica data ad oggi cosa è cambiato? Oggi la Festa del Lavoro in Italia e nel Molise rappresenta la sagra del lavoro che non c’è. Quella della precarietà, dei tantissimi giovani che fuggono all’estero in cerca di normalità, quella che dovrebbe essere garantita dalla Costituzione in casa propria. Il Primo Maggio 2018 celebrato in diversi paesi del mondo si è rivelato un giorno di riflessione sul lavoro che manca, che questa regione non riesce più a produrre e offrire la possibilità di condurre una vita dignitosa. Paesi sempre più spopolati, popolazione sempre più anziana e chi rimane ha sempre in mente di fuggire. La testimonianza di un giovane molisano dell’alto Molise è eloquente per la condizione in cui la nostra terra ha ridotto i suoi figli. Parrebbe che il tempo si sia fermato alla fine dell’800, quando iniziarono i primi esodi in terra straniera, da allora è cambiato ben poco, le valige di cartone e i bastimenti, sono stati sostituiti da palmari e valige di ultima generazione, aerei e treni ultraveloci, ma la condizione di emigrato meridionale rimane sempre tale in cerca di stabilizzazione.
Ed ecco Francesco molisano di Agnone (IS) Laureato, 28 anni, da 4 costretto a cercare lavoro all’estero, in Svizzera, come i nostri padri, più precisamente nella parte francofona, come operatore di raffineria per una multinazionale inglese.”
Cosa ti ha portato a decidere di partire?
“La voglia di normalità, la voglia di creare la mia normalità. L’Italia è un Paese che premia la mediocrità, perchè la mediocrità ci rassicura, ci illude di essere tutti allo stesso livello, e quando qualcuno con più grinta, maggiore capacità, o solamente con la voglia di fare, esce da questo intorpidimento sociale, non giustifica come me, chi preferisce restare sotto la sua coperta di Linux. “Ha avuto un colpo di fortuna” o “Sicuramente conosce qualcuno”, frasi ricorrenti di quelle che Leonardo Sciascia definiva “ominicchi”.
Cosa hai trovato appena arrivato in terra straniera?
“La Svizzera è un grande Paese, che permette a chi ha voglia di mettersi in gioco di progredire. Ma allo stesso tempo è anche un luogo dove non hai diritto all’errore, dove in quanto straniero, ogni tuo comportamento o gesto può essere preso come schema generale applicabile a tutta la tua etnia. Se c’è un italiano che compie un reato, allora tu in quanto membro dello stesso popolo, sei in qualche modo coinvolto. Come classico stereotipo dell’italiano che parla solo in dialetto e mangia pizza mentre suona il mandolino. Un po’ come facciamo noi con i migranti africani. Una grande costante del razzismo è la sua internazionalità.”
Quali differenze ci sono con l’Italia?
“Senza dubbio la pacatezza. Dalle radio, alla televisione, ai giornali, qui non c’è quella macabra morbosità su un fatto di cronaca, non si ripropone all’infinito la stessa notizia fino a decomporla e non si fanno teatrini nei talk show. Il rovescio della medaglia è che questa pacatezza tende a trasformarsi in reticenza, si cerca di dare l’immagine di un Paese sicuro, ricco e tranquillo. E purtroppo questa non è la realtà.”
Cosa ti ferisce di più in questa scelta forzata?
“La distanza dalla mia famiglia e la mia terra. Nonostante gli studi fatti, i falliti tentativi di creare qualcosa di mio, sono dovuto partire non per diventare ricco o un grande imprenditore, ma soltanto per avere quello che vogliamo tutti: una casa, una famiglia, un lavoro che mi soddisfi.”
Cosa rimproveri ai politici italiani?
“Piu’ che un rimprovero, vorrei fare una considerazione: i politici li votiamo noi. Quando insultiamo il deputato di turno nell’ennesimo talk show, in realtà stiamo offendendo la nostra capacità di giudizio, perchè abbiamo dato il nostro voto alla persona che si è saputa vendere meglio. E lo facciamo da decenni, come se avessimo una forma di amnesia che si presenta solo sotto elezioni. Se davvero vogliamo cambiare qualcosa, dobbiamo aprirci ad idee e facce nuove.”
Negli ultimi 10 anni, secondo dati dell’Istat, gli emigrati italiani sono triplicati dai 36mila del 2007 ai circa 115mila del 2016. Sugli 81mila connazionali con più di 24 anni che si sono cancellati dalle anagrafe nel 2016, la quota più significativa è rappresentata dai 38mila cittadini nella fascia 25-39 anni, con un’incidenza di laureati del 28,5 per cento. Ma anche questi numeri sono, appunto, sottostimati. Idos, un centro di ricerche, ha incrociato i dati in arrivo dalle nostre anagrafe a quelli degli archivi dei paesi di destinazione, arrivando alla conclusione che le stime Istat dovrebbero essere aumentate di almeno 2,5 volte: da 114mila a 285mila trasferimenti, un picco che ricorda quelli raggiunti nel pieno Dopoguerra. Situazione non diversa dal dato nazionale nel Molise che negli ultimi anni ha visto andare via per lavoro 3.000 giovani tra laureati e diplomati. La speranza che possa esserci nel breve lungo periodo una inversione di tendenza è quello che tutti si augurano. Se la politica fosse in grado di ascoltare il grido di aiuto dei giovani e capace di programmare il futuro potremmo ristabilire quell’equilibrio che negli anni ottanta/novanta era stato ricostituito anche nel Molise con filiere in grado di offrire lavoro e stabilizzazione per migliaia di molisani, prima della crisi che ha cancellato speranze e posto in povertà un terzo della popolazione molisana.