Un Molise, fragile e rassegnato, che aspetta il momento propizio per scaricare la propria rabbia nelle urne, stenta a costruire un confronto programmatico capace di superare gli steccati delle appartenenze corporative, delle rendite di posizione, e di chi confonde il tepore della propria nicchia con il contesto socio-economico regionale.
La manovra finanziaria per il 2017 è stata adottata nella consapevolezza istituzionale dell’insussistenza dei trasferimenti ordinari nazionali che precludono alla Regione Molise di assolvere alle proprie funzioni amministrative. Tra debiti pregressi, interessi sul debito, ratei dei mutui, disavanzo sanitario e tagli nazionali, il Bilancio approvato è un simulacro sepolcrale tenuto in piedi con alchimie contabili, avanzi, residui, partite contabili e appostamenti sottostimati che attendono in corso d’esercizio rimpinguamenti indispensabili su voci significative.
In assenza di un Assessore al Bilancio, e privi di un Direttore titolare del Dipartimento Bilancio e Risorse Umane, è toccato al Presidente della Giunta illustrare il combinato disposto tra quote annue dei fondi europei 2014-2020 e dei co-finanziamenti nazionali FSC 2014-2020, e manovra contabile vera e propria. In pratica il Bilancio serve a tenere in piedi una macchina amministrativa che non è in grado strutturalmente di assicurare certezze finanziarie in base alle leggi vigenti, né riesce a pagare nelle scadenze previste i creditori.
Il principio base della contabilità di un ente pubblico è che in base ad una norma c’è un capitolo di bilancio con una somma appostata da destinare alle spese che si prevedono durante l’esercizio per quella tipologia di uscita. Ebbene questo principio in Molise non viene onorato per come confermano le imprese che attendono i pagamenti per opere pubbliche, i comuni che vantano anche i rimborsi spese elettorali del 2011 e 2013, le associazioni Pro-loco, i cittadini in attesa del rimborso del bollo auto e una lunga sfilza di soggetti pubblici e privati che sollecitano un riscontro in base a norme di legge.
Questo disallineamento contabile è frutto di 15 anni di aumento di spese, riduzione dei trasferimenti e contrazione delle entrate proprie, per concessioni, autorizzazioni, patrimonio o altro. Meno soldi da Roma, aumento delle uscite per reggere l’urto di nuove competenze trasferite e minori entrate dirette causate dalla crisi del tessuto produttivo, dal calo demografico e dalla carente riorganizzazione amministrativa su acqua, usi civici, terreni demaniali, cave, tratturi, beni patrimoniali e proprietà immobiliari.
Il Presidente della Giunta ha sorvolato brillantemente su questo disallineamento contabile strutturale, e ha indicato nel flusso dei fondi comunitari e della quota annua del fondo sviluppo e coesione, le opportunità per sostenere la ripresa economica e la crescita. In un silenzio assordante, ho sollevato in Aula una questione politica che è rimasta priva di risposta.
Lo Stato si impegnò nel 1986 quando chiuse la Cassa del Mezzogiorno a stanziare annualmente almeno il 40% delle proprie risorse ORDINARIE nel Sud sia con trasferimenti diretti ai comuni, alle province e alle regioni, e sia con investimenti veicolati da Ferrovie dello Stato, Anas, Enel, aziende pubbliche partecipate e/o progetti nazionali.
Il Governo Ciampi spinse in specifici accordi sulla politica dei redditi del 1993 quella quota dal 40 al 45%. In realtà con l’avvento della Seconda Repubblica e l’egemonia della Lega Nord che seppe sostituire la Questione Meridionale con la Questione Settentrionale, il Sud è stato vilipeso, umiliato e tradito da classi dirigenti che nei sistemi maggioritari avevano bisogno dell’investitura romana per essere candidati al vertice delle istituzioni o in Parlamento.
Oggi basta interpellare uno studente di Ragioneria e non un esperto di Bilanci per appurare che lo Stato non ha mai onorato l’impegno di trasferire risorse ordinarie per il 40% alle regioni meridionali e men che meno Anas, Enel, Ferrovie, Finmeccanica, Rai o altre imprese pubbliche hanno rispettato tale percentuale. Al contrario con la crisi delle borse del 2007-2008 e le politiche di austerità sono aumentati i tagli, fino alla soppressione o quasi delle province, a comuni che annaspano e a regioni stritolate da debiti sanitari e costrette a sopperire sui territori alla fuga dello Stato.
Se questa condizione attraversa tutto il Mezzogiorno, figurarsi come è costretto ad agire il Molise con uno Stato che rifiuta di considerare i costi aggiuntivi di servizi pubblici erogati in aree montane, interne e alle prese con uno spopolamento progressivo, la chiusura di attività produttive e la fuga dei giovani. Mi sono ritrovato a sollevare in Aula il tema che i fondi europei con i co-finanziamenti nazionali sono da considerarsi aggiuntivi e non sostitutivi del Bilancio ordinario corrente, altrimenti la forbice tra Nord e Sud continuerà ad allargarsi così come è accaduto nell’ultimo ventennio.
Ai miei rilievi di merito, che decontestualizzavano il dibattito da microemendamenti di corto respiro, non c’è stata alcuna risposta né in Consiglio e né all’esterno, come a dire che la tecnica contabile ha sostituito la politica, che non c’è bisogno di aprire alcuna “ Vertenza Molise “ con lo Stato, che tutto va bene, c’è la ripresa, le strade provinciali sono percorribili, gli ospedali funzionano, il territorio non frana, le scuole sono in sicurezza, i giovani lavorano e le aziende investono.
Ho messo a verbale nella mia dichiarazione di voto che queste responsabilità nazionali del Governo non sono imputabili agli amministratori pro-tempore delle regioni meridionali, ma i 4 miliardi di finanziamenti avuti dalla Basilicata per il 2014-2020 non sono il doppio dei 700 milioni del Molise che conta la metà degli abitanti lucani.
Si pone una questione politica che o viene raccolta e posta da un ampio arco di forze economiche, istituzionali e sociali a Roma col necessario vigore, o viene fatta cadere arrecando ulteriori danni alla prospettiva di rilancio del Molise. E non sarà la stessa cosa se verrà fatta una scelta o l’altra tra queste due.