Isernia- Può il processo per l’omicidio di un giornalista al dentro delle cose riservate che scrive, essere lo specchio di un paese intrappolato in una rete di sangue e di misteri?
Si, se davanti ai giudici ci sono un ex capo del governo, un magistrato, tre uomini di Cosa Nostra e un neofascista della Banda della Magliana. Anche se alla fine tutti saranno assolti.
Su uno dei delitti più subdoli e misteriosi della prima repubblica, verte l’incontro convegno di Venerdì 29 giugno alle ore 16.30 presso Palazzo San Francesco sede del comune di Isernia. La presentazione del libro di Alvaro Fiorucci e Raffaele Guadagno “Il Divo, il Giornalista, il Processo specchio di un’epoca, Giulio Andreotti e l’omicidio di Carmine Pecorelli (detto Mino) frammenti di un processo dimenticato.
Modera e coordina l’incontro L’Avv. Giovancarmine Mancini Componente direttivo Camera Penale Distrettuale Molisana, consigliere comunale capogruppo Isernia;
Saluti Dott- Giacomo d’Apollonio sindaco di Isernia;
Intervengono con gli autori Rosita Pecorelli, Prof. Vincenzo Cimino cons. naz. Ordine dei Giornalisti, componente CORECOM;
Avv. Maurizio Carugno Presidente Ordine Avvocati di Isernia;
Avv. Erminio Roberto Presidente Camera Penale Distrettuale Molisana;
Dott. Vincenzo Di Giacomo Presidente Tribunale di Isernia
Carmine Pecorelli, meglio conosciuto come Mino Pecorelli (Sessano del Molise, 14 giugno 1928 – Roma, 20 marzo 1979), è stato un giornalista, avvocato e scrittore italiano, che nell’ambito del giornalismo si occupò d’indagine politica e sociale.
Fondatore dell’agenzia di stampa «OP-Osservatore Politico» («OP») che divenne poi anche una rivista, venne assassinato a Roma in circostanze ancora oggi non del tutto chiarite.
Le origini e la formazione
Nacque a Sessano del Molise. Nel 1944, appena sedicenne, si arruolò nel Secondo corpo polacco in quel periodo attivo nella zona. Dopo la fine della seconda guerra mondiale si diplomò a Roma; successivamente si trasferì a Palermo, dove si laureò in giurisprudenza all’università degli studi di Palermo.
Tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta lavorò nella capitale come avvocato. Divenne esperto di diritto fallimentare e fu nominato capo ufficio stampa del ministro Fiorentino Sullo, iniziando così ad entrare nell’ambiente del giornalismo.
La carriera giornalistica e le inchieste
Nella primavera del 1967 Pecorelli cambiò mestiere, dedicandosi al giornalismo a tempo pieno. Lavorò al periodico Nuovo Mondo d’Oggi (prima mensile poi settimanale di “politica, attualità e cronaca”)[1], una rivista caratterizzata dalla ricerca e pubblicazione di scoop negli ambienti di potere. Pecorelli divenne socio dell’editore Leone Cancrini[2]. L’esperienza del settimanale fu, per lui, un trampolino di lancio. Strinse molte amicizie: alcune durarono poco, altre segnarono un passo importante nel suo curriculum[3]. L’ultimo scoop, però, non fu mai pubblicato, perché intervenne l’Ufficio affari riservati del Ministero dell’Interno che trovò un accordo per far chiudere la rivista il 2 ottobre 1968[4].
Pecorelli decise così di proseguire da solo l’attività e fondò una propria agenzia di stampa[5]. OP-Osservatore Politico fu registrato al Tribunale di Roma il 22 ottobre 1968 con sede in via Tacito 90. OP(come fu subito chiamato) trattava di politica, in particolare di scandali e retroscena, e comunque di chi – in qualche modo – avesse qualche potere in Italia, fornendo notizie in anteprima raccolte dallo stesso Pecorelli, grazie alle sue numerosissime aderenze in molti ambienti dello Stato, e accompagnate da accurate analisi elaborate dal giornalista. La testata (il cui nome coincideva con l’acronimo di “ordine pubblico“), divenne presto molto nota ed ebbe anche una certa centralità in ambiti politici, militari e di intelligence, costituendo una sorta di elitaria fonte di informazione specializzata: politici, dirigenti statali, militari, agenti segreti, e forse anche personalità criminali. Con la sua diffusione di nicchia, l’agenzia OP era ricevuta da una selezionata lista di abbonati, che comprendeva le alte sfere militari, politiche ed industriali italiane.[senza fonte]
Nel marzo del 1978 Pecorelli annunciò la decisione di trasformare l’agenzia in un periodico regolarmente in vendita nelle edicole. Pecorelli non disponeva del denaro necessario per una simile avventura editoriale. Infatti lo stesso giornalista chiese spesso a personaggi di spicco delle sovvenzioni pubblicitarie per la sua rivista. L’operazione stupì per il tempismo tra il primo numero del settimanale OP e la strage di via Fani a Roma, con cui iniziò il periodo dei 55 giorni del sequestro di Aldo Moro.
Il periodico si occupò a più riprese del rapimento e dell’omicidio dello statista democristiano, arrivando a fare rivelazioni sconcertanti (ad esempio sulla falsità del Comunicato n. 7, quello del Lago della Duchessa). Altri bersagli privilegiati di Pecorelli furono Giulio Andreotti ed in particolare l’ambiente (fatto di politici, industriali e faccendieri) che alimentava la sua corrente: esemplare l’episodio di una cena in cui il braccio destro di Andreotti, Franco Evangelisti, cercò di convincere Pecorelli, con un assegno di 30 milioni di lire, prestati da Caltagirone[Franco o Francesco?], a non pubblicare un reportage sugli assegni milionari che Andreotti avrebbe girato all’imprenditore Nino Rovelli o a Mario Giannettini del Sid[6]. Lo scrittore Giulio Cavalli ha scritto e pubblicato un libro intitolato L’innocenza di Giulioproprio incentrato su Andreotti e la mafia, in cui sviscera con particolari significativi e in parte inediti la vicenda di Pecorelli.
Altri rimarcabili scandali regolarmente pubblicati su OP furono quello dell’Italpetroli e sulla presenza di una loggia massonica in Vaticano (scoop pubblicato all’indomani dell’elezione di Albino Luciani al soglio pontificio).[senza fonte]
L’agguato e l’omicidio
La sera del 20 marzo 1979 Mino Pecorelli fu assassinato da un sicario che gli esplose quattro colpi di pistola in via Orazio a Roma, nelle vicinanze della redazione del giornale. I proiettili, calibro 7,65, trovati nel suo corpo sono molto particolari, della marca Gevelot, assai rari sul mercato (anche su quello clandestino), ma dello stesso tipo di quelli che sarebbero poi stati trovati nell’arsenale della banda della Magliana, rinvenuto nei sotterranei del Ministero della Sanità. L’indagine aperta all’indomani del delitto seguì diverse direzioni, coinvolgendo nomi come Massimo Carminati (esponente dei Nuclei Armati Rivoluzionari e della banda della Magliana), Antonio Viezzer, Cristiano e Valerio Fioravanti.
Tutti vennero prosciolti il 15 novembre 1991; successivamente, le ipotesi sul mandante e sul movente fiorirono a grappoli: da Licio Gelli (risultato estraneo ai fatti) a Cosa nostra, fino ad arrivare ai petrolieri ed ai falsari di Giorgio De Chirico (Antonio Chichiarelli, membro della Banda della Magliana).
Le indagini giudiziarie
Il 6 aprile 1993, il pentito Tommaso Buscetta, interrogato dai magistrati di Palermo, parlò per la prima volta dei rapporti tra politica e mafia e raccontò, tra le altre cose, di aver saputo dal boss Gaetano Badalamenti che l’omicidio Pecorelli sarebbe stato compiuto nell’interesse di Giulio Andreotti. La magistratura aprì un fascicolo sul caso. In questo faldone vennero aggiunti, man mano che le indagini proseguivano e per effetto delle deposizioni di alcuni pentiti della “banda della Magliana“, il senatore Giulio Andreotti, l’allora pm Claudio Vitalone, Gaetano Badalamenti, Giuseppe Calò in qualità di mandanti, e inoltre Michelangelo La Barbera e Massimo Carminati in qualità di esecutori materiali. Il 24 settembre 1999 fu emanata la sentenza di assoluzione per tutti gli imputati “per non avere commesso il fatto”. Il 17 novembre 2002, la corte d’assise d’appello di Perugia condannò Andreotti e Badalamenti a 24 anni di reclusione come mandanti dell’omicidio. La corte d’appello confermò invece l’assoluzione per i presunti esecutori materiali del delitto.[7]
Il 30 ottobre 2003 la Corte di Cassazione annullò senza rinvio la condanna inflitta in appello a Giulio Andreotti e a Badalamenti, affermandone definitivamente l’innocenza.[8] Un altro processo a carico di Andreotti, pur dichiarando i fatti prescritti, stabilirà però che questi ebbe rapporti stabili e amichevoli con cosa nostra fino al 1980.[9]
L’importanza della figura
Pecorelli era dotato di spiccato senso storico e si dimostrò conoscitore della realtà politica, militare, economica e criminale italiana. Il corpus delle sue edizioni è stato oggetto di una mole impressionante di smentite (soprattutto dopo la sua morte), ma una minima parte di esse ha poi resistito in sede giudiziaria di fronte a querele o ad altri procedimenti.
Si è discusso se egli avesse nelle sue analisi inviato talvolta messaggi in codice. La particolarità del lavoro che svolse, sia per gli argomenti trattati che per il modo in cui li trattò, fece sì che molte delle sue indicazioni potessero essere sinteticamente definite da altri colleghi “profezie”, come ad esempio le note righe sul “generale Amen”, nome dietro al quale molti hanno letto la figura del generale Carlo Alberto dalla Chiesa: sarebbe stato lui che – secondo la narrazione di Pecorelli – durante il sequestro Moro avrebbe informato il ministro dell’Interno Francesco Cossiga dell’ubicazione del covo in cui era detenuto (ma, sempre stando a questa ipotesi, Cossiga non avrebbe “potuto” far nulla poiché obbligato verso qualcuno o qualcosa). Il generale Amen, sostenne Pecorelli nel 1978 senza mezzi termini, sarebbe stato ucciso; per il movente, infilò fra le righe un’allusione alle lettere che Moro scrisse durante la sua prigionia. In sede giudiziaria si è ampiamente dibattuto se Pecorelli fosse un ricattatore professionista, visto il tenore e gli argomenti della quasi totalità delle sue inchieste, ma tale tesi è stata bocciata dopo l’esame patrimoniale eseguito dopo il suo assassinio: il giornalista risultava perennemente indebitato con tipografie e distributori del proprio giornale ed il suo spartano tenore di vita non poteva certo essere paragonato con quello di chi avrebbe ricattato. La morte del giornalista segnò anche la fine di OP: l’agenzia prima e la rivista poi erano alimentate esclusivamente dalle notizie che Pecorelli raccoglieva in prima persona dalle sue fonti, allocate nel mondo politico, nella loggia P2 (cui risultò affiliato egli stesso) ed all’interno dell’Arma dei Carabinieri e dei servizi segreti italiani.[10]
Dopo l’omicidio di Aldo Moro, Pecorelli aveva pubblicato sulla sua rivista, nel frattempo divenuta settimanale, alcuni documenti inediti sul sequestro, come tre lettere inviate alla famiglia. La ricerca lo aveva portato a scoprire alcune verità scottanti, tanto che profetizzò anche il suo stesso assassinio.