Isernia – L’ordine del giorno presentato in Consiglio comunale dalla Consigliera Filomena Calenda, riguardante il riconoscimento del “caregiver familiare” è passato con 29 voti favorevoli e un solo astenuto
Nel nostro Paese vi sono forti ritardi nel prendere coscienza del ruolo fondamentale di chi si prende cura in ambito familiare. Un ruolo insostituibile e di incommensurabile valore per la persona assistita, ma anche per il contesto familiare e sociale.
Un valore anche di forte rilevanza economica per le risorse pubbliche che la sua funzione di continuità assistenziale consente di risparmiare.
Un ruolo senza il quale il nostro sistema di welfare risulterebbe totalmente insostenibile nell’oggi e, ancor più, nelle sfide che la società dell’invecchiamento ci presenta.
Ma quanti sono i caregiver nel nostro Paese secondo le statistiche nazionali? In una ricerca multiscopo ISTAT si stima che siano oltre 3 milioni i familiari caregiver che in Italia assistono anziani, malati, disabili. Il dato è certamente sottostimato rispetto alla realtà caratterizzata dalla crescita esponenziale di grandi vecchi con polipatologie croniche e degenerative, per oltre l’80% assistiti a domicilio a carico dei familiari.
Un dato che ben evidenzia come il sostegno alla cronicità e le cure a lungo termine – per non parlare poi della fragilità – siano insostenibili senza un chiaro riconoscimento di ruolo e supporto ai familiari che si prendono cura. Nel nostro Paese il lavoro di cura ha ancora oggi un forte carattere di genere (pur essendo gli uomini in aumento) a conferma di stereotipi culturali da un lato e, dall’altro, dell’assenza di politiche organiche e strutturali di conciliazione.
Il lavoro di cura, nel contesto delle trasformazioni sociali ed economiche che hanno mutato la composizione e l’organizzazione familiare, ha assunto sempre più, rispetto al passato, un carattere intergenerazionale ed evidenzia un crescente impegno di giovani adolescenti verso i quali è necessario attivare, con decisione, politiche intersettoriali di sostegno.
L’assistenza ad un figlio disabile dura tutta la vita e oltre. Ma anche quando l’assistenza concerne coniugi o genitori, la durata nel tempo e l’intensità del lavoro di cura impattano pesantemente sulla vita del familiare che si prende cura stravolgendone la quotidianità ed il progetto di vita.
Stress emotivo, stanchezza fisica, problematiche di conciliazione, di gestione del tempo, di gestione di risorse economiche si sommano a pesanti dilemmi etici e ad un forte senso di perdita. E in questo difficile e complesso percorso è fondamentale che il riconoscimento di ruolo si accompagni a valorizzazione sociale, ad attivazione di servizi professionali di supporto, a percorsi di accompagnamento e condivisione.
Chi si prende cura vive una battuta di arresto delle proprie aspettative personali e pone le sue energie psicofisiche al servizio di una persona cara che necessita di assistenza. La percezione di essere soli ad affrontare i mille ostacoli della quotidianità in un tempo di cui non si conosce la durata e la possibile fine, determinano forme di stress ed esaurimento che rischiano di impattare pesantemente non solo sulla salute e la vita di chi cura, ma anche di chi ha necessità di ricevere cure.
A tutto questo occorre rispondere con adeguate azioni di formazione al ruolo, di sostegno psicologico, di sollievo programmato, di interazione con servizi professionali. Servizi che devono essere flessibili, riorientati verso la domanda, verso il sostegno alla domiciliarità, verso un progetto di cura capace di tenere conto delle caratteristiche del contesto e delle risorse familiari, delle problematiche di sostegno alla persona che assume una responsabilità primaria di cura.
Combattere l’isolamento del caregiver, il suo impoverimento relazionale e professionale significa agire non solo per l’attivazione di servizi, ma anche per evitare quella fuoriuscita dal mercato del lavoro alla quale molte persone si vedono costrette per rispondere ai bisogni di vicinanza, di relazionalità, di sostegno alla vita quotidiana della persona cara.
Questo richiede che la consapevolezza del ruolo sia socialmente condivisa, che le organizzazioni datoriali sviluppino modalità organizzative flessibili e rispondenti ai bisogni reali del lavoratore caregiver, occorre che welfare aziendale e welfare territoriale avanzino di pari passo e in coerenza con la riorganizzazione dei servizi pubblici e la nascita di servizi privati in grado di rispondere alla forte diversificazione e alla elevata flessibilità dei bisogni di cura.
Ed occorre inoltre riconoscere che impegnarsi nel lavoro di cura significa anche acquisire competenze trasversali e competenze specifiche che devono essere riconosciute nel mercato del lavoro e avere il valore di credito formativo per chi necessiti o intenda avvalersi di percorsi formativi mirati.
Ma occorre anche intervenire perché il crescente costo della cura, oggi sempre più riversato sulle famiglie, e la perdita di reddito che si accompagna alla riduzione di ore lavorative se non alla perdita totale del salario, non aumentino il rischio povertà che oggi milioni di caregiver affrontano. Occorre defiscalizzare, come la Francia e altri Paesi europei ci hanno insegnato, le spese di cura quale condizione chiave perché i familiari possano avvalersi di aiuti offrendo lavoro regolare.
E occorre riconoscere contributi figurativi a fronte di impegni di cura attestati in piani assistenziali, affinché l’obiettivo 284 pensionistico non risulti ancor più irraggiungibile per chi temporaneamente ha l’esigenza di assumere una responsabilità di cura. Molteplici studi evidenziano che le persone che prestano rilevante attività di cura hanno il doppio di probabilità di avere problemi di salute (il triplo di probabilità se hanno tra i 18 e i 25 anni).
Questo terribile dato evidenzia l’impatto psicofisico del dare cura e come su ciò occorra fare medicina preventiva. L’impegno di cura porta di fatto il caregiver a focalizzare l’attenzione non su di sé, ma sulla cura dell’altro. Ed il timore che la propria assenza determini rischi e sofferenze per la persona cara induce a dilazionare esami, visite mediche, interventi ospedalieri…
Occorre evitare il costo umano, sociale ed economico che comporta far diventare il caregiver esso stesso soggetto fragile e bisognoso di cure. Occorre far diventare i sollievi programmati e d’emergenza elementi su cui il caregiver sappia di poter fare affidamento in termini di rispetto dei tempi e qualità del servizio verso la persona da assistere.
Occorre che le Case della salute, elemento base di una riorganizzazione delle cure primarie sul territorio, mettano in campo un’azione interprofessionale progettata ed agita per essere riferimento costante di pazienti e caregiver nella prevenzione, nella gestione dei percorsi assistenziali integrati, nelle dimissioni protette, nel rapporto con le strutture ospedaliere e con i servizi di assistenza domiciliare integrata.
Il ruolo del caregiver deve essere riconosciuto, valorizzato, integrato nel sistema dei servizi, quale punto della rete territoriale di un welfare di comunità.
E in questo una grande sfida si apre anche per le associazioni di volontariato in termini di consolidamento dell’importante ruolo che svolgono nelle comunità locali, ma anche come soggetto in grado di promuovere e valorizzare il volontariato civico nella relazione di aiuto.