SOTTO L’APPENNINO meridionale, in profondità, nell’area del Sannio-Matese, esiste una sorgente di magma che può generare terremoti “di magnitudo significativa” e più profondi rispetto a quelli registrati di solito nell’area. La scoperta, pubblicata sulla rivista Science Advances, è dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) e del dipartimento di Fisica e geologia dell’università di Perugia. Il lavoro ‘Seismic signature of active intrusions in mountain chains’, impatta sulle conoscenze della struttura, composizione e sismicità delle catene montuose, sui meccanismi di risalita dei magmi e dei gas e su come monitorarli.

Questa notizia da quando è stata diffusa sta gettando panico e apprensione tra la popolazione meridionale e molisana.

Per appurare da una fonte scientifica accreditata se e quali rischi diversi da quelli già ampiamente recensiti su un’area come il Molise che risulta già rossa dalle mappe sismografiche rilevate dall’Ingv, abbiamo avvicinato uno dei massimi esperti, il Geologo Consigliere nazionale dell’Ordine dei Geologi Dott. Domenico Angelone, attento studioso dei fenomeni sismici.

Dott. Angelone in riferimento a questa nuova pubblicazione c’è da preoccuparsi?

Una nuova ricerca merita sempre attenzioni, ma sostanzialmente non cambia nulla in base a quanto già sappiamo. La consapevolezza che ci sia o meno un’ipotesi di eruzione a poter determinare terremoti di lieve o grande intensità, nel tempo, rispetto a quello che è l’appennino meridionale con le sue faglie, come quella del Matese ampiamente sotto controllo con strumenti che la tecnologia ci sta mettendo a disposizione, non deve intimorire la popolazione  o gettare panico inutile.

Cosa vuol dire in termini pratici?

Quelli vulcanici, se si dovessero confermare con maggiore rilevanza scientifica, sono processi lunghissimi che possono verificarsi dopo decine di  migliaia di anni. Si è alzato un polverone, a mio avviso inutile, infatti anche se le dinamiche possono apparire nuove la sostanza non cambia. Si tratta di fenomeni “deduttivi dai sismogrammi ” che nulla possono cambiare rispetto alla necessaria prevenzione che dovrebbe essere sempre la priorità assoluta in un territorio a grande rischio sismico come il nostro.

In sintesi la priorità quale deve essere, rispetto ad un futuro incerto e quasi apocalittico descritto dai ricercatori, con la formazione sui nostri appennini di un nuovo vulcano?

Ripeto, sono processi che durano migliaia di anni, metterei sempre e comunque la prevenzione dal rischio sismico la priorità assoluta, nei processi di costruzione edilizia, nell’avere scuole ed edifici pubblici e privati a norma, che rispettino i criteri generali di antisismicità. Sappiamo, in base ai terremoti distruttivi dei secoli scorsi, fino a quello più recente e distruttivo, riguardante la faglia del Matese del 26 luglio 1805 (terremoto di Sant’Anna) che abbassare la guardia è da stolti, come ignorare il problema se per alcuni decenni non si verificano terremoti distruttivi. Senza inutili allarmismi e pensieri di una imminente apocalisse, bisogna fare i conti con la realtà in cui viviamo ed adottare tutti i mezzi a nostra disposizione per convivere con il rischio sismico e non farci trovare impreparati, quindi soccombere quando una scossa tellurica rilevante giunge per poi contare i morti. 

 

Maggiori approfondimenti sulla pubblicazione scientifica della deduzione sismografica sulla risalita magmatica:

“Le catene montuose sono generalmente caratterizzate da terremoti riconducibili all’attivazione di faglie che si muovono in risposta a sforzi tettonici”, spiega Francesca Di Luccio, geofisico Ingv e coordinatore, con Guido Ventura, del gruppo di ricerca, “tuttavia, studiando una sequenza sismica anomala, avvenuta nel dicembre 2013-2014 nell’area del Sannio-Matese con magnitudo massima 5, abbiamo scoperto che questi terremoti sono stati innescati da una risalita di magma nella crosta tra i 15 e i 25 chilometri di profondità. Un’anomalia legata non solo alla profondità dei terremoti di questa sequenza rispetto a quella più superficiale dell’area (meno di 10-15 chilometri), ma anche alle forme d’onda degli eventi più importanti, simili a quelle dei terremoti in aree vulcaniche”.

La prima scossa si fece sentire sui monti del Matese il pomeriggio del 29 dicembre. La magnitudo 5 (i terremoti iniziano a essere distruttivi da magnitudo 5.5) e la profondità (la scossa iniziale superava i 20 chilometri) impedirono che il sisma causasse danni significativi, anche se il tremore fu avvertito fino a Napoli. “Capimmo subito che non ci trovavamo di fronte a una sequenza tipica degli Appennini” spiega Nicola Alessandro Pino dell’Ingv, fra gli autori dello studio. “In poche ore gli ipocentri sono saliti da oltre 20 chilometri a 10 chilometri. Le scosse si sono mosse verso l’alto lungo due linee dritte, come se un fluido stesse risalendo verso l’alto ai due margini di una frattura”. E’ abbastanza frequente, nelle falde acquifere dell’Appennino, ritrovare anidride carbonica di origine vulcanica disciolta nell’acqua. “Ma terremoti come la sequenza del matese sono fenomeni sporadici”. Ed è difficile determinare se a risalire sia direttamente magma o gas che viene premuto verso l’alto dal magma sottostante. “Quello che noi osserviamo è l’anidride carbonica che risale in superficie” spiega Pino. “Di quel che si trova sotto abbiamo solo un’idea approssimativa”.

Terremoti, scoperta una sorgente di magma sotto l'Appennino meridionale

Il magma o il gas su cui preme, nelle profondità degli Appennini, hanno una pressione così forte da spaccare le rocce o da sollecitare le spaccature già esistenti, eventualmente causando terremoti normali (quelli di origine tettonica). L’anidride carbonica arriva in superficie e viene rivelata dagli strumenti dei geochimici come gas libero o disciolta negli acquiferi. “Questo risultato”, aggiunge Ventura, “apre nuove strade alla identificazione delle zone di risalita del magma nelle catene montuose e mette in evidenza come tali intrusioni possano generare terremoti con magnitudo significativa. Lo studio della composizione degli acquiferi consente di evidenziarne anche l’anomalia termica”.

“E’ da escludere che il magma che ha attraversato la crosta nella zona del Matese possa arrivare in superficie formando un vulcano”, aggiunge Giovanni Chiodini, geochimico dell’Ingv. “Tuttavia, se l’attuale processo di accumulo di magma nella crosta dovesse continuare, non è da escludere che, alla scala dei tempi geologici (ossia migliaia di anni), si possa formare una struttura vulcanica”. Durante lo studio sono stati raccolti dati sismici e geochimici e sviluppati modelli sulla risalita dei fluidi. La ricerca è iniziata con l’analisi della sismicità della sequenza del Sannio-Matese, per poi concludersi con la modellazione delle condizioni di intrusione magmatica. La conoscenza dei segnali riconducibili alla risalita di magmi in zone non vulcaniche deve essere ancor estesa ad altre grandi catene come l’Alpino-Himalayana, Zagros (tra Iraq e Iran), le Ande e la Cordigliera Nord-Americana. “I risultati fin qui raggiunti”, conclude Di Luccio, “aprono nuove strade non solo sui meccanismi dell’evoluzione della crosta terrestre, ma anche sulla interpretazione e significato della sismicità nelle catene montuose ai fini della valutazione del rischio sismico correlato”. (fonte Repubblica)