di Pietro Tonti
Perché in Italia un politico può continuare a governare anche dopo un rinvio a giudizio, mentre nei Paesi del Nord Europa basta una semplice ipotesi di reato per imporre dimissioni immediate? Non si tratta soltanto di una differenza giuridica, ma di una distanza culturale, storica e morale che affonda le sue radici nei secoli.
Nel nostro ordinamento vale – giustamente – il principio di presunzione di innocenza. Ma ciò che cambia radicalmente tra l’Italia e i Paesi nordici non è il diritto, bensì il senso della responsabilità pubblica. In Scandinavia, in Germania o nei Paesi Bassi, le dimissioni non sono una sanzione penale, bensì un atto etico: un gesto di rispetto verso le istituzioni e verso i cittadini. In Italia, invece, la permanenza al potere viene spesso difesa come un diritto personale, anche a costo di logorare la credibilità dello Stato.
Questa differenza ha una radice profonda nella storia religiosa e culturale europea.
Nel mondo cattolico, e in particolare nella tradizione italiana, per secoli la Chiesa ha praticato il sistema delle indulgenze plenarie: il peccato poteva essere espiato, spesso dietro compenso, e il fedele tornava “puro” fino al prossimo errore. Una logica ciclica, quasi amministrativa del peccato, che ha finito per normalizzare l’idea della colpa come qualcosa di negoziabile e rimandabile.
Nel Nord Europa protestante e luterano, invece, l’indulgenza non è mai esistita.
O si è colpevoli o non lo si è.
Il rapporto con la colpa è diretto, individuale, privo di mediazioni assolutorie. La reputazione morale è un capitale fragile: una volta incrinato, difficilmente recuperabile. Da qui nasce una concezione della vita pubblica in cui l’onore personale coincide con la credibilità istituzionale.
Questo diverso approccio si riflette oggi nella politica. In Italia, un avviso di garanzia o un rinvio a giudizio vengono spesso minimizzati, derubricati a “atto dovuto” o complotto giudiziario. Si continua a governare senza pudore, ignorando il giudizio dell’opinione pubblica e talvolta quello dei magistrati, in una pericolosa confusione tra diritto alla difesa e diritto al potere.
Nel Nord Europa accade l’opposto: un politico si dimette non perché colpevole, ma perché la sola ombra del sospetto rischia di compromettere la fiducia dei cittadini. È un principio semplice: le istituzioni devono essere più pulite delle persone che le occupano.
Il lassismo italiano nasce anche da un’altra convinzione radicata: che la legge sia un ostacolo da aggirare e non una cornice condivisa. La furbizia, la resistenza, il “restare a galla” sono spesso considerati segni di abilità, non di discredito. Al Nord Europa, invece, il rispetto delle regole è percepito come un patto collettivo, la cui violazione comporta una responsabilità immediata.
La differenza abissale, dunque, non è solo nei codici penali, ma nel senso del limite. In Italia la politica tende a difendere se stessa; nei Paesi nordici tende a difendere l’istituzione. E finché non si comprenderà che dimettersi non è una resa ma un atto di dignità, il divario culturale continuerà a pesare sulla qualità della nostra democrazia.
Il caso Molise

Un esempio emblematico di questo approccio tutto italiano è rappresentato dal caso del presidente della Regione Molise, Francesco Roberti, recentemente raggiunto da un rinvio a giudizio. Ancora prima che il processo abbia inizio, gran parte della politica – trasversalmente – si è schierata a difesa del governatore, ribadendo pubblicamente la sua innocenza e affermando che “saprà dimostrare la propria estraneità ai fatti”.
Una presa di posizione che, pur legittima sul piano umano e politico, solleva una contraddizione profonda sul piano istituzionale. In questo modo, infatti, non ci si limita a ribadire il principio della presunzione di innocenza, ma si finisce per mettere indirettamente in difficoltà la magistratura stessa, che sta semplicemente svolgendo il proprio compito di accertamento dei fatti. Una dinamica paradossale, eppure ormai ricorrente: chi è chiamato a rispondere davanti ai giudici continua a esercitare pienamente il potere, mentre l’indagine viene percepita come un’intrusione anziché come una garanzia di legalità.
In altri contesti europei, una situazione analoga avrebbe probabilmente portato a una sospensione o a dimissioni temporanee, non come ammissione di colpa, ma come atto di rispetto verso l’istituzione rappresentata e verso i cittadini. In Italia, invece, prevale ancora l’idea che governare sia un diritto da difendere a ogni costo, anche quando la serenità dell’azione pubblica rischia di essere compromessa.
È proprio in casi come questo che emerge con chiarezza il divario culturale tra il nostro Paese e il Nord Europa: da un lato la difesa preventiva e corporativa della classe politica, dall’altro il primato dell’etica pubblica e della credibilità delle istituzioni. Un divario che continua ad alimentare sfiducia e a rendere difficile quel salto di qualità morale che molti cittadini chiedono da tempo.






