Quando l’ideale comunitario si trasforma in burocrazia e imposizione. Il caso ungherese come simbolo di un’Europa che non ascolta i popoli.

Editoriale di Pietro Tonti

Da tempo, molti cittadini europei si pongono la stessa domanda: abbiamo ancora bisogno dell’Europa Unita?
L’Unione Europea nacque come un sogno di pace e di cooperazione economica, un progetto straordinario che avrebbe dovuto garantire prosperità e stabilità ai popoli del continente.
Ma oggi quel sogno sembra essersi trasformato in una struttura tecnocratica e distante, che parla il linguaggio dei regolamenti e dei parametri economici, ma ha smarrito quello della solidarietà e dell’identità.


Il Green Deal: quando la transizione diventa regressione

Il Green Deal europeo, sbandierato come la grande svolta ecologica del nostro tempo, si sta rivelando un boomerang economico e sociale.
Le intenzioni erano lodevoli: ridurre le emissioni, salvaguardare il pianeta, promuovere un modello di sviluppo sostenibile.
Ma la realtà, per chi vive e produce in Europa, è ben diversa: imprese soffocate da regole, aumenti vertiginosi dei costi energetici, settori strategici penalizzati, agricoltori e allevatori allo stremo.

Mentre l’Europa si impone vincoli sempre più rigidi, la Cina e altri Paesi extraeuropei continuano a produrre senza freni, conquistando mercati e accumulando ricchezza.
Così, ciò che doveva essere una transizione verde è diventato un suicidio economico: industrie che chiudono, posti di lavoro che spariscono, famiglie sempre più in difficoltà.
La sostenibilità è diventata un dogma, non un progetto realistico.


Una politica estera che divide, non unisce

Alla crisi economica si aggiunge quella geopolitica.
L’Unione Europea, che doveva essere garante di pace e dialogo, ha scelto di schierarsi apertamente in una logica di confronto militare.
L’appoggio incondizionato al governo di Volodymyr Zelensky, le sanzioni alla Russia e la corsa agli armamenti hanno trasformato l’Europa in un campo di battaglia diplomatico ed economico.
Un continente nato per dire “mai più guerra” oggi investe miliardi in armi e taglia fondi ai cittadini e alle imprese.

È una contraddizione che mina alla radice la credibilità del progetto europeo.
Non si può parlare di “unità” mentre si alimentano divisioni, non si può invocare la “pace” mentre si continua a inviare missili.
L’Europa si è allineata ciecamente agli interessi della NATO e degli Stati Uniti, rinunciando alla propria autonomia strategica e alla sua identità politica.


L’Ungheria e l’orgoglio della sovranità nazionale

In questo scenario, il caso dell’Ungheria di Viktor Orbán sta diventando emblematico.
Budapest rappresenta oggi una voce fuori dal coro: un Paese che rivendica la sovranità nazionale e il diritto di decidere in autonomia sulle questioni strategiche, economiche e culturali.

Mentre Bruxelles moltiplica le procedure di infrazione e le minacce di sanzioni, l’Ungheria rivendica la libertà di difendere i propri confini, la propria identità e le proprie scelte economiche.
Orbán rifiuta di piegarsi alla linea imposta dall’Unione, critica le sanzioni contro la Russia e chiede un’Europa “delle nazioni”, non un’Europa “dei burocrati”.

È un atteggiamento che molti giudicano provocatorio, ma che per altri rappresenta un atto di orgoglio e di lucidità politica.
L’Ungheria non è contro l’Europa: è contro questa Europa, quella che punisce chi dissente e premia chi obbedisce.
E se davvero Budapest dovesse avvicinarsi all’uscita dall’Unione, sarebbe il fallimento politico e morale di Bruxelles, incapace di conciliare unità e pluralismo.

Perché un’Europa che non sa ascoltare diventa inevitabilmente un’Europa che perde pezzi.


Il paradosso dell’Unione

Il paradosso è evidente: mentre si parla di “coesione” e “integrazione”, cresce il malcontento in quasi tutti gli Stati membri.
L’Unione Europea si presenta come custode della democrazia, ma troppo spesso impone decisioni verticali, ignorando le peculiarità di ogni Paese.
Il risultato è una frattura sempre più profonda tra Bruxelles e le comunità locali, tra chi governa e chi subisce.

Si parla di un’Europa unita, ma non si può unire ciò che non si rispetta.
L’Europa sarà forte solo se saprà riconoscere le differenze, non eliminarle.


Oltre il mito, la realtà

Forse è arrivato il momento di ammetterlo: l’Europa Unita così com’è non funziona più.
Non serve un’Europa dei trattati e dei vincoli, ma un’Europa delle persone, delle comunità, delle sovranità dialoganti.
Un’Europa che torni a essere laboratorio di libertà, non un apparato di regole.

Abbiamo bisogno dell’Europa, sì — ma di un’Europa diversa, capace di rappresentare i popoli e non solo le élite.
Un’Europa che rispetti chi sceglie strade autonome, come l’Ungheria, e che non confonda l’indipendenza con la ribellione.

Perché la vera unità nasce dal rispetto, non dall’imposizione.
E finché Bruxelles continuerà a parlare di “valori comuni” ma ad agire con logiche punitive, il sogno europeo resterà solo una bandiera sbiadita al vento della storia.

Pietro Tonti direttore di Molise Protagonista