di Pietro Tonti
La sentenza del Tar Molise che ha respinto il ricorso di Domenico Di Baggio contro la sua estromissione dalla Giunta comunale di Isernia chiude la vicenda sul piano giuridico, ma apre una riflessione ben più ampia sul piano politico, etico e democratico. La revoca è stata giudicata legittima perché rientrante nella discrezionalità politica del sindaco, fondata sul rapporto fiduciario che lega il primo cittadino ai propri assessori. Nulla da eccepire, formalmente, sul piano del diritto amministrativo.
Ma è proprio qui che nasce il problema.
La sentenza, pur ineccepibile sotto il profilo tecnico, consegna alla politica – e soprattutto ai cittadini – un messaggio profondamente controverso: il consenso elettorale, l’impegno profuso e persino il riconoscimento pubblico del buon operato possono essere annullati da una scelta politica unilaterale, senza che vi sia alcun correttivo in termini di rappresentanza.
Domenico Di Baggio non era un assessore “tecnico” calato dall’alto, ma un portatore di voti, un uomo che aveva contribuito in modo determinante all’elezione dell’attuale amministrazione. La sua estromissione non lo ha solo escluso dalla Giunta, ma – per effetto del meccanismo previsto dalla legge – lo ha lasciato fuori anche dal Consiglio comunale, privando così di rappresentanza una parte dell’elettorato che in lui si riconosceva.
Il Tar afferma che la stima personale può coesistere con la revoca per ragioni politiche. È vero. Ma sul piano deontologico e democratico resta una domanda inevasa: che valore ha il mandato ricevuto dai cittadini se può essere azzerato da un riassetto politico interno, del tutto sganciato dal merito e dal consenso popolare?
Il rischio è evidente. Si trasmette l’idea di una politica come mondo opaco e imprevedibile, una sorta di “meccanica quantistica” del potere locale, dove le posizioni sono indeterminate e il risultato elettorale non garantisce né stabilità né continuità di rappresentanza. Anche chi ottiene una valanga di voti può ritrovarsi, dall’oggi al domani, con un nulla in mano.
È questo l’insegnamento che vogliamo dare ai giovani? Che l’impegno politico, il lavoro sul territorio, la fiducia dei cittadini contano meno degli equilibri di palazzo? Che la meritocrazia in politica è un concetto secondario rispetto alle velleità strategiche di chi governa?
Decisioni come questa, pur legittime, rischiano di alimentare un sentimento già diffuso: la distanza tra cittadini e istituzioni. Ogni volta che un elettore vede “il proprio” rappresentante estromesso senza che vi sia una sanzione politica o un confronto pubblico, cresce la disillusione. Ed è anche da qui che nasce l’astensionismo, la disaffezione verso le urne, la convinzione che votare serva a poco.
Il Tar ha fatto il suo dovere, applicando la legge. Ora spetta alla politica interrogarsi sul senso di queste scelte. Perché se la legalità formale non si accompagna a una percezione di giustizia e correttezza, il prezzo lo paga la democrazia stessa. E, alla lunga, lo pagano tutti.







