Alla Fiera del Tartufo di San Pietro Avellana un confronto tra Cefaratti e Saia accende il dibattito sul futuro dell’ospedale “Caracciolo” e delle aree interne

di Pietro Tonti

Mi è capitato, quasi per caso, di assistere a un confronto informale ma significativo a San Pietro Avellana, a margine della prima giornata della 30ª Fiera Mercato del Tartufo Bianco.
Protagonisti: l’Assessore regionale alla Programmazione Gianluca Cefaratti e il Sindaco di Agnone, nonché Presidente della Provincia di Isernia, Daniele Saia.
Un dialogo breve ma emblematico, che racchiude in sé la distanza — e talvolta il muro — tra la logica dei numeri e quella delle persone.

Alla fine dell’intervista, ho chiesto all’assessore se fosse d’accordo sulla necessità di realizzare un Parco Fiera in grado di esaltare il valore dell’“oro bianco” del Molise, creando una struttura permanente per eventi come la Fiera del Tartufo.
Mentre ponevo la domanda, si è avvicinato il sindaco Saia, che ha rilanciato l’idea: «Servirebbe un Parco Fiere per Agnone, dove concentrare manifestazioni di rilievo come la Fiera Casearia dei formaggi italiani e, perché no, ospitare anche eventi di San Pietro Avellana. Sarebbe un modo per unire e valorizzare il territorio».

Cefaratti ha colto subito il suggerimento, ma lo ha declinato in chiave politica: «Si potrebbe fare per una certa compensazione, bisogna ragionare in questi termini», ha detto, alludendo chiaramente al depotenziamento dell’ospedale “Caracciolo” di Agnone.
Poi ha aggiunto, con tono pragmatico: «Ho visto i numeri, non ci siamo. Non c’è speranza per il presidio ospedaliero. Quantomeno cerchiamo di ragionare verso una premialità: ti tolgo, ma ti ridò qualcosa in termini strutturali».

Parole che hanno inevitabilmente acceso la replica di Saia.
Il sindaco ha difeso con forza la posizione di chi vive quotidianamente il disagio di un territorio montano e di confine: «Parliamo di oltre 4.000 abitanti che non hanno più un presidio sanitario e di anziani lasciati soli, proprio nell’età in cui hanno più bisogno di cure immediate e vicine».

Ne è nato un botta e risposta intenso, che ha messo in luce due visioni inconciliabili: da un lato, quella tecnica di chi governa i bilanci e deve far quadrare le cifre; dall’altro, quella umana e sociale di chi deve dare risposte concrete a una popolazione sempre più isolata e dimenticata.

Ascoltando quel confronto, non potevo non riflettere sull’enorme distanza tra i proclami dei convegni e la realtà concreta delle aree interne.
Da anni sentiamo ripetere che bisogna fermare lo spopolamento, trattenere i giovani, rivitalizzare i borghi.
Ma come si può pensare a uno sviluppo reale se si continua a smantellare la sanità, il servizio più essenziale e simbolico dello Stato nei territori marginali?

Anche la carenza di medici, non può essere una giustificazione, bisogna intervenire con strumenti moderni e robotici per compensare alla carenza di medici, la tecnologia al servizio delle aree disagiate anche in sanità. O importare medici dal Venezuela o da Cuba, come si sta già facendo nel Molise, ma ecco che ritornano i conti: non possiamo permetterci nulla!


Chi resterà in un luogo dove non si può garantire un’emergenza per malattie tempo-dipendenti, dove i medici sono irreperibili e i cittadini devono percorrere chilometri di curve per un semplice esame?

Il paradosso è che, ogni volta, ci si rifugia dietro il solito riferimento al decreto Balduzzi, come se fosse una legge di natura immutabile.
Ma quel decreto, nato per razionalizzare la sanità nazionale, non può essere applicato alla lettera in regioni come il Molise, dove le distanze, l’età media e la conformazione del territorio impongono criteri diversi.
Se il Molise interno vuole davvero sopravvivere, serve il coraggio politico di andare in deroga, di adattare le norme alle persone e non le persone alle norme.

Non servono compensazioni simboliche o parchi fieristici come “premio di consolazione” per la perdita di un ospedale.
Servono servizi, medici, ambulanze, investimenti.
Perché senza sanità non c’è fiducia, senza fiducia non c’è comunità, e senza comunità non c’è territorio che possa resistere.

La mia riflessione, tornando da San Pietro Avellana, è semplice e amara:
la montagna molisana non muore per mancanza di idee, ma per mancanza di coerenza.
Non si può parlare di sviluppo sostenibile e, allo stesso tempo, tagliare i presidi che garantiscono la vita.
E finché continueremo a ragionare solo in termini di numeri, resteremo prigionieri di quel serpente che si morde la coda — e che, a forza di girare su se stesso, finirà per inghiottire tutto il Molise interno.

Pietro Tonti Direttore di Molise Protagonista