di Pietro Tonti
La mia città, in cui sono nato e avrei voluto crescere i miei figli guardando al futuro con ottimismo.
La mia città, vilipesa, svilita nel commercio, nell’artigianato, nell’industria, ove la povertà latente è sempre più percepibile.
La mia città, diventata multietnica per paradosso, in cui i cinesi aprono attività commerciali e i miei concittadini sono costretti a chiudere.
La mia città, dove i profughi bivaccano, pochi affaristi ci guadagnano e i residenti stentano a sopravvivere.
La mia città, in cui si vive con le pensioni di nonni e zii e il lavoro è sempre più chimera.
La mia città, dove si fugge dalla peste della disoccupazione a tutte le età.
La mia città, abbandonata dalle istituzioni e dalla politica, dai diritti elementari del vivere civile.
La mia città, della gente sempre più triste e svogliata, repressa nella monotonia di giornate inutili senza progetti.
La mia città, degli avvocati e dei conteziosi; delle banche che non finanziano; dei pignoramenti e della lunga lista dei sequestri immobiliari per fallimento.
La mia città, tetra e languida nelle serate invernali, delle strade vuote e dei cani randagi.
La mia città, nella stazione ferroviaria dei derelitti e dello spaccio; della falsa ospitalità e della degenerazione multietnica.
La mia città, pericolosa per giovani e anziani, nelle scuole per il rischio sismico e nelle case per il rischio sismico e i mariuoli.
La mia città, dei ricordi dello struscio di Corso Garibaldi, finito negli anni 90.
La mia città, delle case senza più valore e dei fitti esagerati dei locali commerciali.
La mia città, degli amici disoccupati; di quelli in cassa integrazione; di quelli in mobilità e di quelli al limite del suicidio.
La mia città, dei finti ricchi con macchinoni e pochi ricchi veri con utilitarie.
La mia città, con la liquefatta università, la perdita di economia, la lontananza dei presidi regionali.
La mia città, delle inciviltà, delle passioni, dei cani e dei gatti ed escrementi dappertutto.
La mia città, di chi ancora si sforza di sopravvivere e chi si abbandona al gioco d’azzardo.
La mia città, dei bar e dei pub sempre gli stessi clienti e pochi affari per tutti.
La mia città, inesorabilmente, lentamente muore.
La mia città, vilipesa, svilita nel commercio, nell’artigianato, nell’industria, ove la povertà latente è sempre più percepibile.
La mia città, diventata multietnica per paradosso, in cui i cinesi aprono attività commerciali e i miei concittadini sono costretti a chiudere.
La mia città, dove i profughi bivaccano, pochi affaristi ci guadagnano e i residenti stentano a sopravvivere.
La mia città, in cui si vive con le pensioni di nonni e zii e il lavoro è sempre più chimera.
La mia città, dove si fugge dalla peste della disoccupazione a tutte le età.
La mia città, abbandonata dalle istituzioni e dalla politica, dai diritti elementari del vivere civile.
La mia città, della gente sempre più triste e svogliata, repressa nella monotonia di giornate inutili senza progetti.
La mia città, degli avvocati e dei conteziosi; delle banche che non finanziano; dei pignoramenti e della lunga lista dei sequestri immobiliari per fallimento.
La mia città, tetra e languida nelle serate invernali, delle strade vuote e dei cani randagi.
La mia città, nella stazione ferroviaria dei derelitti e dello spaccio; della falsa ospitalità e della degenerazione multietnica.
La mia città, pericolosa per giovani e anziani, nelle scuole per il rischio sismico e nelle case per il rischio sismico e i mariuoli.
La mia città, dei ricordi dello struscio di Corso Garibaldi, finito negli anni 90.
La mia città, delle case senza più valore e dei fitti esagerati dei locali commerciali.
La mia città, degli amici disoccupati; di quelli in cassa integrazione; di quelli in mobilità e di quelli al limite del suicidio.
La mia città, dei finti ricchi con macchinoni e pochi ricchi veri con utilitarie.
La mia città, con la liquefatta università, la perdita di economia, la lontananza dei presidi regionali.
La mia città, delle inciviltà, delle passioni, dei cani e dei gatti ed escrementi dappertutto.
La mia città, di chi ancora si sforza di sopravvivere e chi si abbandona al gioco d’azzardo.
La mia città, dei bar e dei pub sempre gli stessi clienti e pochi affari per tutti.
La mia città, inesorabilmente, lentamente muore.